mercoledì 5 agosto 2020

L, regia di Babis Makridis


regia di Babis Makridis
soggetto di Yorgos Giokas
sceneggiatura di Efthymis Filippou e Babis Makridis

visto al Centrale Arthouse di Torino il 4/8/2020

presenti:
nove spettatori, gel igienizzante, colpi di tosse che non percepisci più con la stessa tranquillità d'animo del pre-pandemia 
l'inizio del film con la proiezione decentrata
la locandina all'entrata posta così in basso che possono vederla solo i cani 
di piccola taglia e i poppanti sul passeggino

Antecedente al girotondo automobilistico intorno al mondo surreale del tenente Carpentier nel "P'tit Quinquin" di Bruno Dumont è la rotonda infinita datata 2012 firmata Makridis; una rotonda percorsa dalla Volvo d'antan del nostro Loser forse per offrire un diversivo ai figli, un girotondo intorno alla crisi ricordando che nel 2012 il popolo greco ha urlato con forza il no all'austerity in piazza Syntagma. 
Il papà è un autista precario incaricato di portare il miele ad un riccastro narcolettico, vive nella Volvo, microcosmo dove festeggia anche il compleanno con una delle feste più deprimenti nella storia del cinema.
In sala dopo otto anni dall'anteprima mondiale del Sundance Film Festival grazie alla Trent Film, è la prima collaborazione di Makridis con Efthymis Filippou (il successivo sarà Oiktos/Pity conosciuto anche come Miserere nel 2018), quel Filippou co-autore del Lanthimos più drammaturgicamente sperimentale e stratificato precedente al più accessibile "La favorita".
È il nostro uomo senza nome e senza qualità, interpretato con vette di intensa verità da Aris Servetalis già indimenticabile Monte Bianco in "Alps", a trasportarci verso parcheggi deserti con una "Sonata al chiaro di luna" di Beethoven diegetica o extradiegetica in base al timbro emozionale della narrazione filmica, una "falsa" sonata che per il suo carattere libero si intreccia perfettamente con una scrittura che non ha timore di rovesciare i canoni tradizionali, di accarezzare l'imperfezione e il destrutturato: il canto infinito, una versione malferma e devitalizzata dei rohmeriani canti del pescatore in "Conte d'été", del protagonista nel finale semi-improvvisato (una sceneggiatura in fieri come raccontato da Makridis in un'intervista) chiude il cerchio del canto iniziale che l'Uomo Orso (un ex autista impallinato a morte da un cacciatore perché scambiato per un plantigrado), offre al protagonista nell'onirica sequenza di apertura.
Più anarchico nella composizione ritmica e con una maggiore dose di libertà concessa all'interpretazione dello spettatore rispetto al successivo "Oiktos", alleggerito da microframmenti che addomesticano l'angoscia: l'avvertimento minaccioso dell'antagonista che pare una versione edulcorata e scema del celebre scorpione raccontato da Mr. Arkadin/Welles, il rituale di iniziazione dei bikers un puro surrealismo Selvaggio che chiude gli occhi solo dinanzi alla morte, perseverazioni a metà strada tra il disturbo del linguaggio e la meccanicità del quotidiano, un prezioso sguardo, ottimamente focalizzato e critico, sul "lavoro" precario alienante, in un Paese che nel 2012 aveva un tasso di disoccupazione al 25%.

sabato 22 febbraio 2020

Parasite (Gisaengchung), regia di Bong Joon-ho





Parasite (Gisaengchung)
scritto da Bong Joon-ho e Han Ji-won
regia di Bong Joon-ho

visto al cinema Eliseo di Torino il 21/2/2020

presenti:
una trentina di spettatori in una sala da 380 posti (ma con uno straordinario incasso totale di quasi 5 milioni di Euro aggiornato al 22/2)
una porta di emergenza che promette il W.C. ma dopo un labirinto spettrale di scale ti scaglia all'esterno senza chiedere scusa e senza la possibilità di svuotare la vescica


Certo, il cinema progressista ha capito che un film è un rapporto fra immagini e suoni. Ma esso si interroga veramente su questo rapporto? Da dove questo rapporto viene? Come funziona? Per chi? Contro chi? No, il cinema progressista non si interroga su queste cose perché non vuole interrogarsi in termine di classe.
(Jean-Luc Godard 1969)

Mi davo alla depravazione solitariamente io, di notte, di nascosto, pavidamente, sudiciamente, con una vergogna che non mi lasciava nei momenti piú ripugnanti e che anzi in quei momenti giungeva fino alla maledizione. Già allora portavo nell'anima mia il sottosuolo. Avevo una tremenda paura che in qualche modo mi vedessero, m'incontrassero, mi riconoscessero. E giravo per vari luoghi molto oscuri.
(Fëdor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)


Al cinema italiano "due camere e cucina", orfano della voce guida del neorealismo, si può imputare una camera di troppo nella metratura della disperazione ed una mancata aderenza alla realtà del disagio nella descrizione filmica della cucina: Lee Ha-jun, lo scenografo di Parasite, dimostra di non conoscere esclusivamente i quartieri alti e disegna l'indigenza con pensili bisunti e muri gonfi per l'umidità.
Il fascino indiscreto del precariato (in Corea del Sud i sussidi di disoccupazione sono aumentati del 103 per cento in cinque anni), del coeso gruppo familiare Kim che vive sotto il livello dell'umanità ed è costretto a cercare il wi-fi gratuito nel "tugurio dolce tugurio", obbligata caccia al tesoro domestica perché nell'era della gig economy il "lavoro" arriva con WhatsApp e se non segui bene il tutorial la tua scatola della pizza non sarà piegata perfettamente e rischi una decurtazione della misera paga.
A fare da contraltare la famiglia Park, nella loro "reggia dolce reggia" trasparente con vista emersoniana: al di là dell'immensa vetrata una natura lontana anni luce dall'ubriaco molesto che si può vedere dalla finestrella ad altezza marciapiede della famiglia Kim.
Troppo distanti per seguire il consiglio riformista polettiano: "Per trovare lavoro è meglio giocare a calcetto che inviare il curriculum", ai Kim non resta che l'istrionica intromissione nel corpo Park: un corpo ospite che non sopporta l'odore acre della sconfitta, non ha la necessità di stendere i calzini ad asciugare sul lampadario (la nevrotica signora Park possiede una cabina armadio che ha le dimensioni della palestra dove vengono ospitati gli abitanti dei bassifondi sfollati per l'alluvione), predilige una sessualità nascosta nei pigiami di seta ma per eccitarsi necessità del richiamo evocativo di quella "selvaticità" che cerca di non integrare erigendo muri.
È la violenta metamorfosi del signor Kim da Gregor Samsa in guerriero della tribù dei Piedi Neri che accompagna l'esplosione di violenza (la signora Kim ha capito perfettamente che gentilezza fa rima solo con ricchezza), con un passaggio nel sottosuolo del sottosuolo, regno claustrofobico per chi fugge dai creditori e tenta di comunicare con un antiquato codice morse nella dimora del businessman arricchitosi grazie alle nuove tecnologie, più armi di distruzione di massa ormai che semplici smartphone perché basta impugnarli e minacciare un semplice invio per far perdere, al tuo nemico, tutto quello che è riuscito ad ottenere con l'inganno, con la sopraffazione, ma che, per lui, ha il retrogusto del riscatto sociale; se Petri e Pirro avevano torto rivalutiamo Proudhon, la proprietà È un furto e possiamo inginocchiarci davanti alle carezze sottoproletarie.

sabato 4 gennaio 2020

Sorry We Missed You, regia di Ken Loach



SORRY WE MISSED YOU
scritto da Paul Laverty
regia di Ken Loach

visto al Cinema Massimo di Torino il 2/1/2020

presenti:
una signora che ha deciso di inondare con una cinefilia urlata, la sala prima della proiezione, criticando lo stile ozpetekiano, secondo lei, troppo ripetitivo
un anziano molto indeciso che ha cambiato posto quattro volte
una ragazzina con lo smartphone acceso durante la proiezione, scampata per un
miracolo laico alla lapidazione
la pomposissima sigla del 4K

Quando non hai molto denaro bisogna concentrarsi sull'essenziale. Non c’è il tempo per filmare i tramonti ed è un bene perché non sono indispensabili alla storia. La povertà obbliga al rigore, ad andare al cuore delle cose.
(Entretien avec Ken Loach, “Positif” ottobre 1994)


Coreografie sociali di Paul Laverty, l'avvocato Laverty (come Piesiewicz, l'intenso sceneggiatore di Kieślowski), collaboratore di Loach dai tempi di "Carla's song" e la coppia sembra non patire la crisi del ventiquattresimo anno.
Nella Newcastle "bianconera" (gocciola realtà calciofila lo scambio tra Ricky, supporter dei Red Devils, e un "cliente" stratifoso delle Gazze), schizzi geometrici di disumanità dis/organizzata, la Voce del Padrone nell'era buia della gig economy dove non sei assunto ma "inserito", giungla urbana nella quale il primo comandamento recita: "Non si scherza con i clienti" al posto del "Io sono il Signore Dio tuo" del polifonico Piesiewicz.
Ricky (uno strepitoso Kris Hitchen) e l'Angoscia, ma la traduzione del titolo affibbiata in Italia al capolavoro di Cukor non è attinente, perché questo è un vero ed ininterrotto gaslighting messo in atto dalla società dei consumi nei confronti di Ricky e della sua famiglia; il nostro eroe Ricky, con il suo Viaggio rateizzato, un Viaggio che è iniziato con la grande crisi del 2008 quando lavorava nell'edilizia.
Ora deve acquistare un furgone per consegnare i pacchi e deve essere veloce per evitare le sanzioni e le segnalazioni dei "clienti" (siamo/sono tutti clienti, anche le persone assistite dalla moglie di Ricky, così recita il primo comandamento della cooperativa presso la quale lavora Abby).
Abby, moglie madre e badante, Abby la buona che piano piano si sgretola sotto i colpi di spazzola dell'anziana "cliente", ed è in questa semplice azione che risiede l'anima del film: le lacrime di Abby, accudita da chi dovrebbe accudire, un ritorno simbolico all'infanzia come antidoto al veleno inoculato dalla società.
Abby che deve gestire i conflitti tra Ricky e Seb, il figlio adolescente ribelle che, con la sua reazione fisica al sequestro dello smartphone, rende plastica la possessione social.
Alla figlia undicenne Liza tocca l'unico raggio di sole del film, con quel pasto consumato assieme al padre, piccola aiutante che cerca invano di trasformare lo schiavismo in gioco:
un raggio di sole che cade sullo stesso pianale del furgone dove il padre tiene una bottiglia per le emergenze, perché il tempo per urinare non è previsto nel Viaggio dell'Eroe.