sabato 22 febbraio 2020

Parasite (Gisaengchung), regia di Bong Joon-ho





Parasite (Gisaengchung)
scritto da Bong Joon-ho e Han Ji-won
regia di Bong Joon-ho

visto al cinema Eliseo di Torino il 21/2/2020

presenti:
una trentina di spettatori in una sala da 380 posti (ma con uno straordinario incasso totale di quasi 5 milioni di Euro aggiornato al 22/2)
una porta di emergenza che promette il W.C. ma dopo un labirinto spettrale di scale ti scaglia all'esterno senza chiedere scusa e senza la possibilità di svuotare la vescica


Certo, il cinema progressista ha capito che un film è un rapporto fra immagini e suoni. Ma esso si interroga veramente su questo rapporto? Da dove questo rapporto viene? Come funziona? Per chi? Contro chi? No, il cinema progressista non si interroga su queste cose perché non vuole interrogarsi in termine di classe.
(Jean-Luc Godard 1969)

Mi davo alla depravazione solitariamente io, di notte, di nascosto, pavidamente, sudiciamente, con una vergogna che non mi lasciava nei momenti piú ripugnanti e che anzi in quei momenti giungeva fino alla maledizione. Già allora portavo nell'anima mia il sottosuolo. Avevo una tremenda paura che in qualche modo mi vedessero, m'incontrassero, mi riconoscessero. E giravo per vari luoghi molto oscuri.
(Fëdor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)


Al cinema italiano "due camere e cucina", orfano della voce guida del neorealismo, si può imputare una camera di troppo nella metratura della disperazione ed una mancata aderenza alla realtà del disagio nella descrizione filmica della cucina: Lee Ha-jun, lo scenografo di Parasite, dimostra di non conoscere esclusivamente i quartieri alti e disegna l'indigenza con pensili bisunti e muri gonfi per l'umidità.
Il fascino indiscreto del precariato (in Corea del Sud i sussidi di disoccupazione sono aumentati del 103 per cento in cinque anni), del coeso gruppo familiare Kim che vive sotto il livello dell'umanità ed è costretto a cercare il wi-fi gratuito nel "tugurio dolce tugurio", obbligata caccia al tesoro domestica perché nell'era della gig economy il "lavoro" arriva con WhatsApp e se non segui bene il tutorial la tua scatola della pizza non sarà piegata perfettamente e rischi una decurtazione della misera paga.
A fare da contraltare la famiglia Park, nella loro "reggia dolce reggia" trasparente con vista emersoniana: al di là dell'immensa vetrata una natura lontana anni luce dall'ubriaco molesto che si può vedere dalla finestrella ad altezza marciapiede della famiglia Kim.
Troppo distanti per seguire il consiglio riformista polettiano: "Per trovare lavoro è meglio giocare a calcetto che inviare il curriculum", ai Kim non resta che l'istrionica intromissione nel corpo Park: un corpo ospite che non sopporta l'odore acre della sconfitta, non ha la necessità di stendere i calzini ad asciugare sul lampadario (la nevrotica signora Park possiede una cabina armadio che ha le dimensioni della palestra dove vengono ospitati gli abitanti dei bassifondi sfollati per l'alluvione), predilige una sessualità nascosta nei pigiami di seta ma per eccitarsi necessità del richiamo evocativo di quella "selvaticità" che cerca di non integrare erigendo muri.
È la violenta metamorfosi del signor Kim da Gregor Samsa in guerriero della tribù dei Piedi Neri che accompagna l'esplosione di violenza (la signora Kim ha capito perfettamente che gentilezza fa rima solo con ricchezza), con un passaggio nel sottosuolo del sottosuolo, regno claustrofobico per chi fugge dai creditori e tenta di comunicare con un antiquato codice morse nella dimora del businessman arricchitosi grazie alle nuove tecnologie, più armi di distruzione di massa ormai che semplici smartphone perché basta impugnarli e minacciare un semplice invio per far perdere, al tuo nemico, tutto quello che è riuscito ad ottenere con l'inganno, con la sopraffazione, ma che, per lui, ha il retrogusto del riscatto sociale; se Petri e Pirro avevano torto rivalutiamo Proudhon, la proprietà È un furto e possiamo inginocchiarci davanti alle carezze sottoproletarie.