venerdì 6 settembre 2019

Effetto Domino, regia di Alessandro Rossetto




EFFETTO DOMINO
scritto da Alessandro Rossetto e Caterina Serra
regia di Alessandro Rossetto

visto al Cinema Due Giardini di Torino il 5/9/2019

presenti:
cinque spettatori per un totale pomeridiano pari a venticinque euro
la beatitudine sotto forma di: posto centrale, poltroncina comoda, spazio per allungare
le gambe e caramella gommosissima


Potrei definire il cinema come l'agit-prop del capitalismo, il virus per eccellenza. La prova che il cinema è la migliore propaganda per il capitalismo è che nessuno se ne rende conto. Basta vedere l'elenco dei film che i capi di Stato si fanno proiettare. Solo Lenin fa eccezione.
Jean-Luc Godard 1967


Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Romolo Bugaro edito da Marsilio e debitore, nella voice-over di Paolo Pierobon, a frammenti che richiamano Jonathan Franzen, il film di Rossetto (al secondo lungometraggio di finzione dopo il riuscito "Piccola Patria") mostra eleganza formale nella descrizione degli spazi, soluzioni felici come le incursioni aeree sulla decadenza e una intensa "danza dei caloriferi" dove è Vivaldi a menare le danze simmetriche (la punteggiatura di Jacopo Quadri rende sempre il periodo visivo denso di significato), uno sguardo non svogliato sul lavoro degli operai edili e passaggi a vuoto nella descrizione psicologica dei personaggi: il rapporto padre-figlie, assente nel romanzo, meritava maggiore approfondimento e risulta sacrificata, nel ruolo della figlia Luisa, una volenterosa Maria Roveran, attrice tra le più talentuose della nuova generazione.
Vite e cemento nel nord-est: speculazioni finanziarie e speculazioni filosofiche extradiegetiche, bustarelle nell'ufficio tecnico del comune, muratori che diventano imprenditori ma portano ancora marchiati sulla loro pelle piccone e badile, un banchiere del diavolo (uno spaesato Marco Paolini), cattivoni zen made in Hong Kong (di Hong Kong vediamo il grattacielo formicaio ma purtroppo nessuna formica incazzata), residenze di lusso per anziani "Newold" con una critica sincera alla società dell'eternamente giovane e al fare (fortunatamente ormai fuori dal Governo) senza pensare, soldi virtuali senza filigrana ma la crisi è tangibile e picchia con pugni sul naso, operai incazzati e il gesto estremo della tessera stufa del "gioco" del quale resta solo un titolo sul giornale: considerato che l'Istat non calcola i suicidi per colpa della crisi economica dal 2010, è una scelta drammaturgica che risulta più aderente alla realtà che cinica.
Con una insistenza per i primi piani che non sempre riesce a raggiungere quella intensità micro-drammatica che tanto garbava a Béla Balàzs e una gestione dell'istintivo che fa capire la grandezza di Cassavetes; per Cassavetes era la camera a doversi adattare alla scena e non il contrario e in questo caso pare esserci più attenzione alla doratura della cornice che per l'impasto del colore, con una analisi superficiale del sistema bancario (viene citata una fantomatica Banca Industriale e l'Unicredit puoi trovarla solo nei titoli di coda, quasi a rendere tangibile l'impossibilità di una critica forte quando per finanziare il tuo film, davanti alle banche ti devi inchinare), resta la speranza che l'urlo finale: "Lavorare!" possa contare sulla presenza in sala degli amanti del Jobs Act come spettatori attenti.




venerdì 30 agosto 2019

L'ingrediente segreto (Iscelitel), scritto e diretto da Gjorce Stavreski




L'ingrediente segreto (Iscelitel)
scritto e diretto da Gjorce Stavreski

visto al Cinema Massimo di Torino il 29/8/2019

presenti:
una quindicina di spettatori
l'ombra di un traliccio(?) che invade fastidiosamente lo schermo 
il proiezionista che accende le luci quando il film non è ancora terminato
io che sussurro parolacce al proiezionista
il fantasma di Kubrick che mi sussurra: "In questa sala un mio film non l'avrei mai proiettato"


Puoi trovare nella battuta del padre di Vele il segreto e l'ingrediente del film: "In questo Paese tutto finisce prima di cominciare". 
Nel cinema intelligente e ben calibrato di Stavreski le cucine di Skopje hanno pensili cigolanti e ingialliti, i muri sono scrostati nelle vie dei palazzoni popolari e l'immagine da cartolina non trova spazio, la Golf è un rottame immatricolato negli anni ottanta adatto per la periferia e non per la ZTL fighetta e non puoi ammalarti di cancro perché la sanità pubblica non copre il costo delle medicine per lenire il dolore.
E le medicine aumentano di 30 euro da una settimana all'altra e adesso ti tocca sborsare più di 100 euro per una confezione.
E l'alternativa è l'acqua "omeopatica" preparata dal santone del quartiere che costa 25 euro e puoi trovarla in farmacia nel reparto "disperati senza soldi per i farmaci tradizionali".
E il tuo capo non può pagarti gli arretrati perché la crisi azzanna pure la sua fabbrica o almeno questa è la sua versione quando ti offre 3 euro.
E tu sei praticamente fottuto perché:
1) gli spacciatori ti massacrano di botte perché hai osato invadere il loro territorio
2) tua madre e tuo fratello sono morti
3) tuo padre è malato di cancro e guidava l'automobile sulla quale sono morti tua madre e tuo fratello
4) sei nato per respirare l'aria di Skopje la Bastarda
Quando nasci balcanico il sangue ha il colore della sofferenza e la densità della genialità folle: Vele (Blagoj Veselinov è mostruosamente bravo per come impasta farina, tempi comici e l'intenso sguardo della sconfitta dello sconfitto in partenza), trova la soluzione nella soffice torta al gusto marijuana offerta al padre con l'inganno (meglio non parlare di THC con un genitore che a parole è più proibizionista di Gasparri); il problema è che la marijuana l'ha rubata e i derubati non sono contenti, il problema è che adesso è lui il nuovo santone del quartiere perché l'acqua miracolosa è acqua passata e tutti, ma proprio tutti, vogliono la ricetta della torta stupefacente.
Comedy a tratti nera ma non slapstick, le torte colpiscono il cuore e non la faccia, Gjorce Stavreski saltella sulla disperazione senza la necessità delle scarpe chiodate, senza la ricerca affannosa del visivo birignao autoriale e confeziona un lavoro godibile e attento alle dinamiche (neo)realiste, dinamiche che ci appartenevano quando la servetta di Umberto D. sterminava le formiche in cucina con il fuoco, un giornale e un luccichio speranzoso negli occhi e lo sguardo cinematografico osava rispecchiarsi nella povertà, mentre ora l'occhio è spesso offuscato da una cataratta borghese che ammanta di artificiosità e distacco il racconto degli ultimi.

martedì 6 agosto 2019

TECHOTA, regia di Kantemir Balagov






TECHOTA
scritto da Kantemir Balagov e Anton Yarush
regia di Kantemir Balagov

visto al Cinema Ambrosio di Torino il 5/08/2019

presenti:
la locandina del film con il cognome del regista inventato (Bagalov invece di Balagov)
faretti segnapasso fastidiosissimi per l'alto grado di luminosità
tredici ultrasettantenni
io


Nal'čik 1998: gruppo di famiglia in un interno ebraico ed esterno cabardo, non è il Cut di Naderi ma è nell'assenza del taglio frenetico l'elegante violenza della struttura filmica perché Balagov sceglie di privilegiare la camera fissa e dei morbidi piano-sequenza per creare vibrazioni nei/dai corpi, con dei movimenti attoriali organici e azioni fisiche sempre ottimamente strutturate: la furia che la protagonista scatena sul busto di donna dona consapevolezza anche all'oggetto; tu chiedi chi era Stanislavskij, Ilana/Darya Zhovnar ti risponderà.
Il talentuoso ventottenne(!) Kantemir Balagov, allievo nei corsi di cinema di Sokurov (qui anche in veste di produttore) tenuti presso l'università di Nal'čik, gira con la sicurezza di un veterano la sua storia, realmente accaduta, del rapimento di un giovane promesso sposo ebreo ortodosso. Ma è solo il pretesto per descrivere la vita della sorella Ilana che sfida le convenzioni familiari, etniche e religiose per non soffocare nel/la sua natura ribelle, una rivoluzione interiore in fieri immersa in strade dissestate, palazzoni ripetitivi e salopette da apprendista meccanico nell'officina del padre, con un tentativo struggente di ritagliarsi lo stesso amore che la madre nutre per il fratello: per una mimesi completa a volte è sufficiente un giubbotto, ma resta una semplice imitazione se l'oggetto d'amore reale è ormai inesorabilmente lontano.
La scrittura delle luci alimenta con eleganza l'impianto drammaturgico, strobo blu fanno da contrappunto ad una danza selvaggia e solitaria dove Ilana sembra ritrovare se stessa, il paradzanoviano colore del melograno della verginità perduta illumina l'alcova improvvisata (appare più una sfida alle imposizioni dei genitori che un atto d'amore, il fazzoletto rosso sangue portato da Ilana a banchettare sul tavolo del matrimonio combinato) e il candore delle nuvole, unica e fugace concessione in un ambiente tenacemente opprimente.
Le crude violenze cecene sono roba vintage da nastro VHS e tubo catodico, inabissamento nella realtà eltsiniana per Ilana ed i suoi amici, talmente amici che nella fattanza le ricordano che gli ebrei sono utili solo quando diventano sapone.
É nel suo amore con l'imponente ragazzo cabardo il punto di fuga di Ila, una dinamicità protettiva profusa da abbracci che trova il suo apice sulle scale metalliche, ammirevole la gestione dello spazio filmico, dove un pianto catartico invade Ilana e impatta con la ieraticità dell'ambiente familiare, ambiente dominato dalla madre, donna solo apparentemente inflessibile che relega il padre a semplice comprimario e i figli alla ricerca affannosa di un respiro libero.

martedì 7 maggio 2019

La proprietà non è più un furto, regia di Elio Petri



 LA PROPRIETÀ NON È PIÙ UN FURTO (1973)
scritto da Elio Petri e Ugo Pirro
regia di Elio Petri

visto a Milano su Rai Storia il 4/5/2019

presenti:
un componente del Kollettivo cinefilo
un pacchetto di Tuc scaduto da una settimana
il Castoro di Luciano De Giusti dedicato a Ken Loach:
-un cineasta deve innanzitutto mostrare i fatti e mettere il dito su ciò che non va-



prude ancora Proudhon

https://www.liberliber.it/mediateca/libri/p/proudhon/la_proprieta/pdf/proudhon_la_proprieta.pdf

sul corpo Total(e) di Flavio Bucci, il ragioniere marxista-mandrakista più malato che ladro (la proprietà più che un furto è una malattia), nel terzo capitolo della trilogia di Petri sul/la nevrosi/potere, dopo "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" e "La classe operaia va in paradiso".
Petri il Profeta, inchioda l'inferno in terra capitalista con il martello dello straniamento brechtiano, perché il vero ladro non è chi rapina la banca ma chi la fonda come scriveva Bertolt, con una riflessione sull'egoismo del possesso che spazia dal ragioniere allergico al denaro di Bucci al macellaio di Tognazzi squartatore piccolo-borghese, con incursioni sul corpo cerimoniale/grottesco di Daria Nicolodi e sullo scassinatore interpretato da Randone che spiega con il cerone, in una sequenza di pastosità kuveileriana, la duplicità al Tom Hardy bronsoniano;










tutto questo nell'anno dell'Austerity 1973, l'anno della crisi petrolifera e delle domeniche a piedi, l'anno del sequestro Amerio, il primo delle BR.
se: "Per i nullatenenti basta il Monte di Pietà" come sostiene il volgare bottegaio,
la Questura si conferma come luogo di morte fisica e mentale:




l'infarto dello scassinatore Albertone diventa una semplice pratica per esercitare l'ennesimo abuso di potere, e pare implicito il legame con i legittimatori della difesa della proprietà privata, leghisti ante litteram, armati di fucile e cattivissime intenzioni.
nella surreale e salviniana "Fiera della Sicurezza" dove Diabolik viene gasato senza pietà all'interno dell'automobile che ha cercato di rubare e nella mercificazione del corpo di Anita





ci sono i prodromi della società attuale.
accompagnato in questo viaggio dal gigante Ugo Pirro (che non è soltanto un nome nei titoli di testa), tutta la filmografia di Petri è la dimostrazione di quanto, oggi più che mai, nei tempi della celebrazione del Reale al posto del reale, siano necessarie voci filmiche libere e scomode che non si limitino ad accarezzare la schiena al Potere.








domenica 21 aprile 2019

Tutte le mie notti, regia di Manfredi Lucibello




TUTTE LE MIE NOTTI

scritto da Manfredi Lucibello e Andrea Paolo Massara 
regia di Manfredi Lucibello

visto al Cinema Esedra di Torino il 20/04/2019

presenti:
cinque o sei ultraottantenni molto fastidiosi
che commentavano ad alta voce e scartavano rumorosamente qualsiasi tipo di caramella disponibile in commercio


si può calcolare la nerditudine di un regista dalla quantità di nudo gratuito che inserisce in un film,
Manfredi Lucibello non rientra nella categoria perché accarezza il corpo esposto della sua giovane protagonista con rispetto per la struttura filmica e senza cadere nella trappola della decontestualizzazione.
Lucibello si conferma, dopo il corto pluripremiato "Storia di nessuno", un noir luciferino con Luciano Manzalini (il gemello magro dei Gemelli Ruggeri) nei panni sporchi di un credibile sicario e "Centoquaranta - La strage dimenticata" l'intenso documentario sulla tragedia del Moby Prince, architetto di luoghi (o)scuri e speleologo negli abissi della mente dal retrogusto chabroliano nonché capace di geometrie eleganti associate ad una sensibilità per le dinamiche interiori, connubio che purtroppo raramente è presente nel cinema italiano.
Sara (una efficace Benedetta Porcaroli), baby squillo reduce da una serata che ricorderà per sempre, corre di notte su una strada deserta: da cosa cerca di fuggire e chi è Veronica, la donna che offre il suo aiuto e conduce Sara in una villa?
da lì in poi, un gioco di specchi esogeno ed endogeno (con un richiamo troppo insistito all'oggetto che rischia e raschia il manierismo; Zerkalo e troverai Tarkovskij, colui che domina nel regno del riflesso empatico in coabitazione con Bergman), con il terrore che corre sull'auricolare, all'interno di un kammerspiel caleidoscopico dove pesci multicolori nuotano sulle pareti e il sangue, quando le ferite non possono rimarginarsi, muore nella purezza dell'acqua.
l'installazione luminescente e simonettiana de "Ma l'Amor Mio Non Muore" che irradia particelle rosse e antagoniste nello spazio borghese, forse inserita per ricordarci il senso della lotta e l'urgenza della riflessione storica: resta uno slogan privo di significato e un semplice esercizio di esibizionismo, nei luoghi dove il working poor può al massimo aspirare alla pulizia della piscina.
l'assenza di flashback rivelatori dimostra che è possibile credere nella partecipazione attiva dello spettatore; i criminali per caso di Lucibello hanno direzioni molteplici e stratificate, personalità frammentate alla disperata ricerca di una ricomposizione emotiva e sociale.
si respira un sincero, nonostante qualche passaggio a vuoto nella scrittura (la frase urlata da Sara che anticipa la seconda fuga: "Io non conosco quell'uomo!", sebbene importante per la struttura è talmente costruita da risultare artificiosa), desiderio di indagare con gli stilemi del noir sul ruolo del denaro e dell'edonismo nella società italiana contemporanea, lasciando una luce di speranza in fondo al tunnel, una luce salvifica come quella prodotta dai fari dell'auto di Veronica che squarciano la notte all'inizio del film.



mercoledì 17 aprile 2019

Menocchio, un film di Alberto Fasulo






MENOCCHIO

di Alberto Fasulo

visto al Cinema Massimo di Torino il 16/04/2019

presenti il regista
e
chi ha il compito durante la serata di presentare il film che purtroppo ha definito "romanzo" 
il saggio di Carlo Ginzburg "Il formaggio e i vermi"
suscitando la risatina di qualche spettatore.
risatina di bassa intensità perché di spettatori torinesi si tratta.

libertà e prigionia di Domenico Scandella detto Menocchio, mugnaio friulano condannato per eresia nell'Italia del 1500.
visione necessaria nell'epoca dell'oscurantismo salviniano e dei veronesi congressi delle famiglie, Fasulo (anche operatore) miscela ombre sacre e luci profane sul viso di Menocchio, incarnato da Marcello Martini, attore non professionista, un ininterrotto Effetto Kulešov con barba candida e mani vissute.
Fasulo apre con un parto frammartiniano (una mucca in questo caso), e sprazzi di innocenza ancora incontaminata: anche nel gesto naturale del parto risiede l'eresia di Menocchio che non vuole e non sa spiegarsi il concepimento verginale di Gesù.
è nella descrizione delle dinamiche della comunità che Fasulo risulta più incisivo: un cinema dei corpi al lavoro (dove la voce del padrone indossa la tonaca), che risulta fluido in contrapposizione alla ieraticità statica del clero (una staticità accentuata anche dalla mancanza di tecnica degli attori non professionisti), e in antitesi alla parola già decapitata da Artaud che però, diabolicamente, qui succhia la crudeltà artaudiana risultando manipolatoria e classista rispetto alla purezza del dialetto sovversivo.
troppo timido nella composizione del reale e dell'irreale per minare con carne e sangue i pilastri del Sistema, nella sua totalità il film ha la forza di un'invettiva vergata con un pennarello rosa: a un passo dall'abiura, nell'inconscio dormiente e collettivo di Menocchio cercano invano di farsi largo a spallate Bachtin e il rovesciamento carnevalesco, la cultura popolare con la sua organicità terrigna, la volontà di dominio della maschera che osserva con gli occhi irriverenti dei riti ancestrali.
brucia Menocchio nel sogno, brucia con la croce che indossa, brucia insieme al simbolo dell'oppressione, ma è un fuoco fatuo perché manca di coraggio e di risolutezza, un dionisiaco che non urla ma balbetta.
il regista confessa, nel dibattito post proiezione, che si è imposto una sorta di autocensura per la sequenza del sogno forse per mitigare le difficoltà che potevano sorgere per il reperimento dei fondi e la distribuzione del film.
in realtà la parola "Autore" dovrebbe racchiudere la capacità di impiccare l'autocensura con il tratto di corda della morale comune.
ad ogni costo...