domenica 21 aprile 2019

Tutte le mie notti, regia di Manfredi Lucibello




TUTTE LE MIE NOTTI

scritto da Manfredi Lucibello e Andrea Paolo Massara 
regia di Manfredi Lucibello

visto al Cinema Esedra di Torino il 20/04/2019

presenti:
cinque o sei ultraottantenni molto fastidiosi
che commentavano ad alta voce e scartavano rumorosamente qualsiasi tipo di caramella disponibile in commercio


si può calcolare la nerditudine di un regista dalla quantità di nudo gratuito che inserisce in un film,
Manfredi Lucibello non rientra nella categoria perché accarezza il corpo esposto della sua giovane protagonista con rispetto per la struttura filmica e senza cadere nella trappola della decontestualizzazione.
Lucibello si conferma, dopo il corto pluripremiato "Storia di nessuno", un noir luciferino con Luciano Manzalini (il gemello magro dei Gemelli Ruggeri) nei panni sporchi di un credibile sicario e "Centoquaranta - La strage dimenticata" l'intenso documentario sulla tragedia del Moby Prince, architetto di luoghi (o)scuri e speleologo negli abissi della mente dal retrogusto chabroliano nonché capace di geometrie eleganti associate ad una sensibilità per le dinamiche interiori, connubio che purtroppo raramente è presente nel cinema italiano.
Sara (una efficace Benedetta Porcaroli), baby squillo reduce da una serata che ricorderà per sempre, corre di notte su una strada deserta: da cosa cerca di fuggire e chi è Veronica, la donna che offre il suo aiuto e conduce Sara in una villa?
da lì in poi, un gioco di specchi esogeno ed endogeno (con un richiamo troppo insistito all'oggetto che rischia e raschia il manierismo; Zerkalo e troverai Tarkovskij, colui che domina nel regno del riflesso empatico in coabitazione con Bergman), con il terrore che corre sull'auricolare, all'interno di un kammerspiel caleidoscopico dove pesci multicolori nuotano sulle pareti e il sangue, quando le ferite non possono rimarginarsi, muore nella purezza dell'acqua.
l'installazione luminescente e simonettiana de "Ma l'Amor Mio Non Muore" che irradia particelle rosse e antagoniste nello spazio borghese, forse inserita per ricordarci il senso della lotta e l'urgenza della riflessione storica: resta uno slogan privo di significato e un semplice esercizio di esibizionismo, nei luoghi dove il working poor può al massimo aspirare alla pulizia della piscina.
l'assenza di flashback rivelatori dimostra che è possibile credere nella partecipazione attiva dello spettatore; i criminali per caso di Lucibello hanno direzioni molteplici e stratificate, personalità frammentate alla disperata ricerca di una ricomposizione emotiva e sociale.
si respira un sincero, nonostante qualche passaggio a vuoto nella scrittura (la frase urlata da Sara che anticipa la seconda fuga: "Io non conosco quell'uomo!", sebbene importante per la struttura è talmente costruita da risultare artificiosa), desiderio di indagare con gli stilemi del noir sul ruolo del denaro e dell'edonismo nella società italiana contemporanea, lasciando una luce di speranza in fondo al tunnel, una luce salvifica come quella prodotta dai fari dell'auto di Veronica che squarciano la notte all'inizio del film.



mercoledì 17 aprile 2019

Menocchio, un film di Alberto Fasulo






MENOCCHIO

di Alberto Fasulo

visto al Cinema Massimo di Torino il 16/04/2019

presenti il regista
e
chi ha il compito durante la serata di presentare il film che purtroppo ha definito "romanzo" 
il saggio di Carlo Ginzburg "Il formaggio e i vermi"
suscitando la risatina di qualche spettatore.
risatina di bassa intensità perché di spettatori torinesi si tratta.

libertà e prigionia di Domenico Scandella detto Menocchio, mugnaio friulano condannato per eresia nell'Italia del 1500.
visione necessaria nell'epoca dell'oscurantismo salviniano e dei veronesi congressi delle famiglie, Fasulo (anche operatore) miscela ombre sacre e luci profane sul viso di Menocchio, incarnato da Marcello Martini, attore non professionista, un ininterrotto Effetto Kulešov con barba candida e mani vissute.
Fasulo apre con un parto frammartiniano (una mucca in questo caso), e sprazzi di innocenza ancora incontaminata: anche nel gesto naturale del parto risiede l'eresia di Menocchio che non vuole e non sa spiegarsi il concepimento verginale di Gesù.
è nella descrizione delle dinamiche della comunità che Fasulo risulta più incisivo: un cinema dei corpi al lavoro (dove la voce del padrone indossa la tonaca), che risulta fluido in contrapposizione alla ieraticità statica del clero (una staticità accentuata anche dalla mancanza di tecnica degli attori non professionisti), e in antitesi alla parola già decapitata da Artaud che però, diabolicamente, qui succhia la crudeltà artaudiana risultando manipolatoria e classista rispetto alla purezza del dialetto sovversivo.
troppo timido nella composizione del reale e dell'irreale per minare con carne e sangue i pilastri del Sistema, nella sua totalità il film ha la forza di un'invettiva vergata con un pennarello rosa: a un passo dall'abiura, nell'inconscio dormiente e collettivo di Menocchio cercano invano di farsi largo a spallate Bachtin e il rovesciamento carnevalesco, la cultura popolare con la sua organicità terrigna, la volontà di dominio della maschera che osserva con gli occhi irriverenti dei riti ancestrali.
brucia Menocchio nel sogno, brucia con la croce che indossa, brucia insieme al simbolo dell'oppressione, ma è un fuoco fatuo perché manca di coraggio e di risolutezza, un dionisiaco che non urla ma balbetta.
il regista confessa, nel dibattito post proiezione, che si è imposto una sorta di autocensura per la sequenza del sogno forse per mitigare le difficoltà che potevano sorgere per il reperimento dei fondi e la distribuzione del film.
in realtà la parola "Autore" dovrebbe racchiudere la capacità di impiccare l'autocensura con il tratto di corda della morale comune.
ad ogni costo...