venerdì 30 agosto 2019

L'ingrediente segreto (Iscelitel), scritto e diretto da Gjorce Stavreski




L'ingrediente segreto (Iscelitel)
scritto e diretto da Gjorce Stavreski

visto al Cinema Massimo di Torino il 29/8/2019

presenti:
una quindicina di spettatori
l'ombra di un traliccio(?) che invade fastidiosamente lo schermo 
il proiezionista che accende le luci quando il film non è ancora terminato
io che sussurro parolacce al proiezionista
il fantasma di Kubrick che mi sussurra: "In questa sala un mio film non l'avrei mai proiettato"


Puoi trovare nella battuta del padre di Vele il segreto e l'ingrediente del film: "In questo Paese tutto finisce prima di cominciare". 
Nel cinema intelligente e ben calibrato di Stavreski le cucine di Skopje hanno pensili cigolanti e ingialliti, i muri sono scrostati nelle vie dei palazzoni popolari e l'immagine da cartolina non trova spazio, la Golf è un rottame immatricolato negli anni ottanta adatto per la periferia e non per la ZTL fighetta e non puoi ammalarti di cancro perché la sanità pubblica non copre il costo delle medicine per lenire il dolore.
E le medicine aumentano di 30 euro da una settimana all'altra e adesso ti tocca sborsare più di 100 euro per una confezione.
E l'alternativa è l'acqua "omeopatica" preparata dal santone del quartiere che costa 25 euro e puoi trovarla in farmacia nel reparto "disperati senza soldi per i farmaci tradizionali".
E il tuo capo non può pagarti gli arretrati perché la crisi azzanna pure la sua fabbrica o almeno questa è la sua versione quando ti offre 3 euro.
E tu sei praticamente fottuto perché:
1) gli spacciatori ti massacrano di botte perché hai osato invadere il loro territorio
2) tua madre e tuo fratello sono morti
3) tuo padre è malato di cancro e guidava l'automobile sulla quale sono morti tua madre e tuo fratello
4) sei nato per respirare l'aria di Skopje la Bastarda
Quando nasci balcanico il sangue ha il colore della sofferenza e la densità della genialità folle: Vele (Blagoj Veselinov è mostruosamente bravo per come impasta farina, tempi comici e l'intenso sguardo della sconfitta dello sconfitto in partenza), trova la soluzione nella soffice torta al gusto marijuana offerta al padre con l'inganno (meglio non parlare di THC con un genitore che a parole è più proibizionista di Gasparri); il problema è che la marijuana l'ha rubata e i derubati non sono contenti, il problema è che adesso è lui il nuovo santone del quartiere perché l'acqua miracolosa è acqua passata e tutti, ma proprio tutti, vogliono la ricetta della torta stupefacente.
Comedy a tratti nera ma non slapstick, le torte colpiscono il cuore e non la faccia, Gjorce Stavreski saltella sulla disperazione senza la necessità delle scarpe chiodate, senza la ricerca affannosa del visivo birignao autoriale e confeziona un lavoro godibile e attento alle dinamiche (neo)realiste, dinamiche che ci appartenevano quando la servetta di Umberto D. sterminava le formiche in cucina con il fuoco, un giornale e un luccichio speranzoso negli occhi e lo sguardo cinematografico osava rispecchiarsi nella povertà, mentre ora l'occhio è spesso offuscato da una cataratta borghese che ammanta di artificiosità e distacco il racconto degli ultimi.

martedì 6 agosto 2019

TECHOTA, regia di Kantemir Balagov






TECHOTA
scritto da Kantemir Balagov e Anton Yarush
regia di Kantemir Balagov

visto al Cinema Ambrosio di Torino il 5/08/2019

presenti:
la locandina del film con il cognome del regista inventato (Bagalov invece di Balagov)
faretti segnapasso fastidiosissimi per l'alto grado di luminosità
tredici ultrasettantenni
io


Nal'čik 1998: gruppo di famiglia in un interno ebraico ed esterno cabardo, non è il Cut di Naderi ma è nell'assenza del taglio frenetico l'elegante violenza della struttura filmica perché Balagov sceglie di privilegiare la camera fissa e dei morbidi piano-sequenza per creare vibrazioni nei/dai corpi, con dei movimenti attoriali organici e azioni fisiche sempre ottimamente strutturate: la furia che la protagonista scatena sul busto di donna dona consapevolezza anche all'oggetto; tu chiedi chi era Stanislavskij, Ilana/Darya Zhovnar ti risponderà.
Il talentuoso ventottenne(!) Kantemir Balagov, allievo nei corsi di cinema di Sokurov (qui anche in veste di produttore) tenuti presso l'università di Nal'čik, gira con la sicurezza di un veterano la sua storia, realmente accaduta, del rapimento di un giovane promesso sposo ebreo ortodosso. Ma è solo il pretesto per descrivere la vita della sorella Ilana che sfida le convenzioni familiari, etniche e religiose per non soffocare nel/la sua natura ribelle, una rivoluzione interiore in fieri immersa in strade dissestate, palazzoni ripetitivi e salopette da apprendista meccanico nell'officina del padre, con un tentativo struggente di ritagliarsi lo stesso amore che la madre nutre per il fratello: per una mimesi completa a volte è sufficiente un giubbotto, ma resta una semplice imitazione se l'oggetto d'amore reale è ormai inesorabilmente lontano.
La scrittura delle luci alimenta con eleganza l'impianto drammaturgico, strobo blu fanno da contrappunto ad una danza selvaggia e solitaria dove Ilana sembra ritrovare se stessa, il paradzanoviano colore del melograno della verginità perduta illumina l'alcova improvvisata (appare più una sfida alle imposizioni dei genitori che un atto d'amore, il fazzoletto rosso sangue portato da Ilana a banchettare sul tavolo del matrimonio combinato) e il candore delle nuvole, unica e fugace concessione in un ambiente tenacemente opprimente.
Le crude violenze cecene sono roba vintage da nastro VHS e tubo catodico, inabissamento nella realtà eltsiniana per Ilana ed i suoi amici, talmente amici che nella fattanza le ricordano che gli ebrei sono utili solo quando diventano sapone.
É nel suo amore con l'imponente ragazzo cabardo il punto di fuga di Ila, una dinamicità protettiva profusa da abbracci che trova il suo apice sulle scale metalliche, ammirevole la gestione dello spazio filmico, dove un pianto catartico invade Ilana e impatta con la ieraticità dell'ambiente familiare, ambiente dominato dalla madre, donna solo apparentemente inflessibile che relega il padre a semplice comprimario e i figli alla ricerca affannosa di un respiro libero.